Abandon hope (summer is here)
E se organizzassimo una manifestazione contro il sistema-architettura e venissero tutti gli architetti?
Quante volte nei film di Hollywood il cattivo di turno altri non è che qualche cattivissima corporation?
Questa provocatoria frase di Slavoj Žižek rispecchia a pieno le biennali e triennali di architettura in scena in questo 2025 pieno di kermesse istituzionali sfornate dalla ArchitectureMachineTM. Dopotutto, come l’anticapitalismo è ampiamente diffuso tra le pieghe del capitalismo stesso, fra le Archistar® a capo di questi grandi brand — in particolare quelle che cercano strategicamente di scrollarsi di dosso questa etichetta (®) — è molto diffusa una retorica di facciata contro le disuguaglianze nel mondo del lavoro e a favore di maggiori diritti per gli architetti meno tutelati. Tuttavia, è proprio grazie a queste disuguaglianze che esse spesso riescono a vincere concorsi (attraverso l’utilizzo di una grande forza lavoro mal pagata), a far crescere i profitti dei loro studi o, più semplicemente, a restare a galla nella ArchitectureMachineTM.
Purtroppo, questa gestuale voglia che almeno un pochino abbiamo tutti noi addetti ai lavori - tutti tranne forse i renderesti (?) - di sferrarci contro il sistema drogato grazie al quale l’ArchitectureMachineTM si basa, anziché indebolirlo, finisce spessissimo per rinforzarlo.
Prendiamo un caso come un altro: una delle x pagine di satira create negli ultimi anni da studenti di architettura o neolaureati che spopolano su Instagram. In molti dei loro post, spesso il soggetto della satira sono gli stessi studenti. Meme sulle nottate infinite per consegne universitarie, meme su internship non pagati, meme sulle manie compulsive nel dettagliare i disegni, meme su neoarchitetti che non riescono a farsi pagare. Questo tipo di ironia leggera - che anche a noi fa spesso ridere - non mette però in nessun modo in crisi l’ArchitectureMachineTM, al contrario in qualche modo lo alimenta. Così queste pagine social, anche e soprattutto quando invece spostano il loro focus sull'ipocrisia di certe Archistar® e memano su di esse, diventano sempre più spesso un grande palcoscenico delle stesse Archistar® prese di mira. Queste, furbamente, non si indignano per i post satirici, ma ironicamente li repostano. Così facendo, riescono in una sola mossa ad annullare anche quel poco potere di suscitare indignazione e dibattito che queste pagine avevano, ad assorbirle nel sistema e a farsi un restyling d’immagine per tentare di mascherare il loro essere biologicamente boomer. Questi modelli esemplificano bene ciò che Robert Pfaller ha chiamato interpassività: essi inscenano il nostro voler combattere l’ArchitectureMachineTM per noi stessi, dandoci al contempo la possibilità di continuare a viverci impunemente dentro, di andare all’ennesima design week a prendere l’ennesimo poster di Bottega Veneta, o chi per essa, o all’ennesimo vernissage in Porta Venezia di un evento che non ci interessa solo per (di)mostrare che c’eravamo anche noi. Dopotutto, per dirla con Žižek:
Anche se non prendiamo le cose sul serio, anche se manteniamo una distanza ironica da quello che facciamo, continuiamo comunque a farlo.
Come in molte altre realtà dei giorni nostri, l’ideologia dominante nel mondo dell’ArchitectureMachineTM di oggi consiste precisamente nella sopravvalutazione del credo inteso come atteggiamento interiore soggettivo, a spese di quanto professiamo ed esibiamo coi nostri comportamenti esteriori. Fintantoché, nel profondo dei nostri cuori, continuiamo a credere che l’ArchitectureMachineTM sia malvagio, siamo liberi di continuare a partecipare ad esso senza peccare di ipocrisia.
E mentre tutto andava a rotoli, nessuno ci faceva granché caso. (Talking Heads)
Questo finto voler combattere l’ArchitectureMachineTM non sarebbe un gran problema, se solo lo si potesse distinguere dalle battaglie autentiche. Nel 2025, vista la sua incapacità di ipotizzare modelli politici-economici diversi (compito che si era narcisisticamente autoimposta (?)), l’ArchitectureMachineTM ha deciso di spostare il suo obiettivo, dal trovare modelli alternativi, ad altri due obiettivi di più facile portata;
Mitigare gli eccessi peggiori del modello attuale. E quindi troviamo biennali che ci tranquillizzano, come delle mamme troppo premurose, sul fatto che l’intelligenza artificiale pur essendo pericolosa rimane l’ultima speranza da abbracciare a tutti i costi per riuscire laddove l’architetto, inteso come colui che doveva produrre trasformazioni, ha miseramente fallito. La macchina ha vinto. L’architetto svuotato dalle proprie idee e dalla propria capacità di scegliere soccombe (infondo non è nemmeno in grado di scegliere i progetti meritevoli di partecipare a queste mostre e si deve affidare alla roulette delle open call).
Fotografare (dal proprio piedistallo fatto di ipocrisie) la cruda realtà, senza mostrare alcuna via per migliorarla. E quindi troviamo triennali che parlano delle ineguaglianze del mondo, dentro le quali però coesistono tirocinanti curricolari poco pagati che speravano di lavorare come mediatori culturali e si ritrovano invece a sorvegliare i corridoi delle sale espositive, a controllare i biglietti e a segnare il numero dei visitatori.

Per l’ArchitectureMachineTM la contestazione è diventata una specie di burlesco rumore di fondo. Senza dire che anche le proteste di molti (ancora per poco) giovani studi ormai comodamente dentro l’ArchitectureMachineTM - ma che continuano a indossare fieramente svuotate estetiche radical - condividono fin troppo con eventi ultra-corporate come il fuorisalone o le fashion week. Tutto questo senza nulla togliere ai numerosi artisti e architetti che pur dentro questa kermesse riescono comunque ad agire contro e mostrare qualche contenuto meritevole di attenzione o semplicemente qualcosa di vero.
Il testo prende deliberatamente ispirazione dal secondo capitolo del libro del 2009 edito da Zero Books Realismo Capitalista di Mark Fisher dal quale ogni tanto abbiamo estrapolato alcune frasi, cambiandone il soggetto, ma (speriamo) non il significato. L’ArchitectureMachineTM, termine preso dal libro di Nicholas Negroponte The Architecture Machine: Toward a More Human Environment del 1970 edito dal MIT press, è il nostro Realismo Capitalista.
Buon inizio estate 2025 dalla redazione di CC!
CC extra di giugno:
Considerazioni e Chiacchiere su …
Italy: The New Domestic Landscape
L'impulso contestatario degli anni Sessanta ipotizzava l'esistenza di un Padre maligno, messaggero di un principio di realtà che (a quanto pareva) negava in maniera crudele e arbitraria il «diritto» al godimento assoluto; un Padre che ha accesso illimitato alle risorse, ma che egoisticamente e immotivatamente le trattiene per sé. Da questa immagine paterna però dipende non il capitalismo, ma proprio la protesta. Allo stesso tempo, uno dei grandi traguardi delle élite globali contemporanee è stato proprio l'aver saputo evitare qualsiasi identificazione con la figura del Padre avido e ingordo, e questo nonostante la «realtà» da loro imposta alle giovani generazioni è considerevolmente più dura di quella contro cui i giovani si scagliavano negli anni Sessanta. (Mark Fisher)
Nel 1972 il Museum of Modern Art di New York ospitò la mostra intitolata Italy: The New Domestic Landscape. Per la prima volta, l’allora curatore della sezione design del museo, Emilio Ambasz mise insieme sia i cosiddetti grandi maestri del design italiano sia l’allora nuova generazione, nata dai movimenti radical, che si sprigionò verso ricerche del tutto nuove e propose una vasta gamma di teorie, spesso contrastanti, sullo stato attuale dell'attività di progettazione.
Questi movimenti nacquero da una volontà di rifiuto. Rifiuto della definizione di architetto come produttore e realizzatore di progetti a ogni costo e di rifiuto di una sudditanza che le università di architettura mantenevano fieramente verso un passato, seppur glorioso, in estrema crisi e legato a un dibattito ormai superato dal clima di forte voglia di innovazioni in ambito sociale, politico e filosofico. Sebbene ovviamente tutte queste neo-avanguardie risentirono dell’inquieto clima politico italiano degli anni 70’, vi fu una comune ostentata rinuncia al rendere effettuali i modelli alternativi professati. Nella maggior parte dei casi, dominava invece un aspetto distruttivo, caratterizzato dalla tautologia e il disimpegno restituendo un ruolo sociale all’architettura solo attraverso la sua totale negazione. L’utilizzo che fecero dell’utopia era maggiormente legato al raggiungimento di questo obbiettivo rispetto alla volontà di costruire un nuovo mondo reale in cui vivere. Anzi, a questi mondi impossibili preferivano i mondi non auspicabili, anti-utopie capaci di mostrare ai pigri occhi del consumatore le problematiche del mondo della super produzione capitalista, portando agli estremi le loro conseguenze.
Ambasz diede spazio proprio a questi designers capaci di vedere al di là dell’oggetto e in grado di elaborare proposte alla scala ambientale (da qui New Domestic Landscape) dedicando una parte della mostra proprio agli environnements. In questa sezione Gaetano Pesce, Ugo la Pietra, Archizoom e Superstudio proposero provocatorie installazioni sulle problematiche dell’abitare. Mentre designers più affermati come Bellini, Sottsas, Zanuso, Gae Aulenti e Giò Colombo ricercano nuove soluzioni globali con utopici abitacoli industriali che promettevano un rifugio per tutti dalle regole del super-consumismo.
Troviamo interessante soffermarsi sulla reazione uguale e contraria che la mostra ebbe nei confronti dei suoi artefici e dei visitatori. Da una parte, questa maniera di far critica alla società stupì un pubblico americano abituato al vedere il design sempre e solo come una operazione funzionale e pragmatica; dall’altra, i grandi confort che l’accettare le regole di un mercato straordinariamente ricettivo come quello del sistema in cui viviamo offriva (e offre), trasformarono molte di queste cellule che promettevano una fuga dal capitalismo in costosi abitacoli di lusso. Inoltre, l’introduzione del termine Architettura Radicale - proposto da Germano Celant (??) - per etichettare tutti questi gruppi aiutò la catalogazione e mercificazione fortunatissima dei loro prodotti, ponendo la parola fine alle utopie, positive o negative che fossero, e alla loro libertà di operare all’interno del sistema.
La mostra fu per questi gruppi un traguardo, inteso sia come momento trionfale che come momento conclusivo di un percorso. Fu la chiamata a recitare un ruolo da attore protagonista in una sola grande esibizione che non avrebbe ammesso bis perché non si sarebbero mai più ricreate le circostanze adeguate per ammetterlo. D’altronde in quell’anno si sciolse anche ufficialmente l’Internazionale Situazionista e solo due anni dopo Archigram concluse la sua stagione editoriale con l’ultimo numero della rivista, il 9. Fu in contemporanea un momento di tesi, antitesi e sintesi. Da sottolineare come il lavoro critico di Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co fu determinante nella mistificazione e dequalificazione di questi gruppi, che partì proprio da un saggio che Tafuri scrisse (chiamato qui per la prima volta a elaborare un testo non in italiano) all’interno del catalogo. Ovviamente anche quest’ultimo entrato nelle dinamiche del mercato vintage di lusso.
Tutto questo non toglie che, questa operazione di allontanamento dalla progettazione del pezzo in sé, spostando l’attenzione sulle condizioni di contorno nelle quali il design opera cercando di ri-programmarle, ha straordinariamente dato vita a oggetti diventati iconici ed eccellenza della cultura italiana della seconda metà del secolo scorso. L’opera di riflessione e misurazione ha generato forme e ha prodotto relazioni fra il mondo e le forme stesse. Inoltre, questo cambio di paradigma da una visione collettiva a una più individualistica degli interpreti che avvenne, non deve assolutamente sconfessare l’eredità che i radicals ci hanno lasciato. Eredità che non sta solo nelle linee ancora contemporanee degli oggetti sapientemente mercificati o nella seduzione che ancora oggi i loro collage e fotomontaggi manuali ci provocano, sopravvissuti a tutte le animazioni 3D anni ‘90 che oggi sono solo archeologia digitale (e che comunque a noi di CC piacciono eheh), ma anche e soprattutto nella loro volontà di raccontare una storia, un percorso, attraverso una pluralità di mezzi di rappresentazione e di una assidua ricerca, spesso volutamente interpretabile perché contraddittoria. E viceversa.